“Il barone rampante” di Italo Calvino


Ogni libro che sia stato letto e amato lascia in chi lo legge un’impronta del suo passaggio. L’edizione che ho conservato de “Il Barone Rampante” di Italo Calvino è quella letta alle scuole medie. La custodisco come fosse un talismano. Rileggerlo ora, da coetanea dell’autore ai tempi della scrittura del romanzo, mi fa un certo effetto.

Italo Calvino, a trentaquattro anni, scrive Il Barone Rampante, guidato dalla nostalgia delle sue letture infantili “brulicanti di personaggi e casi paradossali”. Dedica una prefazione a sé stesso, come accade di frequente, citando diversi titoli - da Peter Pan ad Alice nel paese delle meraviglie al Barone di Münchhausen – i cui autori hanno inteso ritornare fanciulli per lasciare via libera alla propria fantasia. 

È il secondo romanzo della trilogia “I nostri antenati”, pubblicato nel 1957 da Einaudi, e prosegue il tentativo dell’autore di unire l’ispirazione realistica del Neorealismo con la componente dell’invenzione fiabesca.

Da ragazzina avevo preso il racconto alla lettera. 15 giugno 1767. Un pranzo aristocratico di quasi estate. Una famiglia. Un atto di disubbidienza. Il dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò, rampollo di una famiglia nobile ligure di Ombrosa, protesta davanti al piatto di lumache che gli viene offerto e lo respinge. «Ho detto che non voglio e non voglio!». Quindi decide di arrampicarsi sui rami di un albero e di non scendere più.

Nella prima lettura del romanzo, non avevo colto quello che forse è il cuore della storia di Cosimo Piovasco. L’io narrante, Biagio, il fratello del protagonista, evoca il trauma del passaggio dai pranzi in camera della prima infanzia a quelli al tavolo dei grandi, con la serie di rimproveri, punizioni, cocciutaggini che ne deriva. «Allora avevo otto anni, tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo».

L’ostinazione. Il vero tema del romanzo di Calvino. Il gesto di rottura del protagonista non vale tanto di per sé, quanto per la rigorosa fedeltà con cui viene confermato nel tempo. Non mangiare lumache e vivere sugli alberi non è rifiutarsi di crescere. Non è una fuga dal mondo, né dai rapporti umani e dalla società. La storia di Cosimo rappresenta la volontà di un uomo di seguire fino in fondo una regola che si è autoimposto, poiché senza di questa non avrebbe un’identità da presentare a sé stesso e agli altri. Il protagonista decide di vivere sugli alberi non come un misantropo, bensì come un uomo coinvolto nei suoi tempi che partecipa attivamente alla vita degli uomini e agisce altruisticamente, nella consapevolezza che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Il suo gesto è una protesta per ribellarsi alle convenzioni sociali, al rigore e alle pretese degli uomini. Cosimo sta evitando di assumere, nell’uomo adulto che sarà, ciò che aveva rifiutato. Sta sorvegliandosi per non cadere in contraddizione. È, in definitiva, il precettore di sé stesso.

Il Barone Rampante non è semplicemente un romanzo che narra la stravagante vicenda di un uomo bizzarro, bensì rappresenta una summa dei generi narrativi: dal romanzo storico all’apologo, dal romanzo picaresco al racconto filosofico, dal romanzo d’avventura a quello fantastico. È impossibile tracciare l’atlante di riferimenti da cui attinge Calvino, il quale miscela sapientemente gli ingredienti per ottenere un’opera che sia al contempo avvincente e spunto di riflessione.

Il sistema di valori rovesciato fa pensare all’utopia; gli scambi con Diderot e Voltaire tradiscono l’ascendente illuminista e introducono nel racconto la trattazione filosofica; alcune straordinarie gesta del protagonista ricalcano le paradossali Avventure del Barone di Münchhausen, che amplificano la componente fantastica del libro; l’ingegno di Cosimo, che gli vale la capacità di crearsi dal nulla un proprio luogo abitabile, richiama il prototipo del romanzo, Robinson Crusoe. Insomma, l’opera anticipa in parte quella narrativa postmoderna che “gioca” con i generi e di cui lo stesso Calvino sarà un esponente negli anni a venire.

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