“Suite francese”, dal romanzo di Irène Nemirovsky al film diretto da Saul Dibb

Il caso letterario dietro il ritorno di Irène Némirovsky in libreria è una di quelle storie in cui l’intrecciarsi di fatalità e destino meriterebbe un film a parte. Di origine russa ed ebraica anche se convinta antibolscevica e cattolica praticante, la scrittrice non ebbe scampo e fu su uno dei primi convogli a partire dalla Francia occupata per finire nei campi di concentramento, dove la sua cagionevole salute e le crisi di asma la portarono in pochi giorni nelle camere a gas. Le figlie invece sopravvissero grazie al coraggio di una bambinaia, al supporto di un convento e all’intervento economico dell’editore della madre, con una rocambolesca fuga che durò per l’intero secondo conflitto mondiale. Portarono con loro solo una valigia con pochi averi, che si trascinarono dietro da un nascondiglio all’altro. Decenni dopo una delle due figlie la ritrovò in soffitta, l’apri e riscoprì decine di manoscritti della madre, tra cui spicca il suo capolavoro incompiuto, Suite Francese, la sua eredità che i nazisti non erano riusciti ad annientare.

IL LIBRO

C’è qualcosa di vouyeristico nel leggere Suite Francese, un dittico di quella che nelle intenzioni in continuo mutamento dell’autrice doveva essere una mastodontica opera in cinque parti, che raccontasse vizi e virtù della Francia che capitola al nemico e viene occupata. Non che la sua natura di prima stesura affidata a un diario sia davvero intuibile a un lettore inconsapevole, il che dà un riscontro importante sulle capacità di grande narratore e castigatore di personaggi che la Némirovsky ha sempre dimostrato di avere, anche nelle sue opere più brevi.

Tutte le cifre stilistiche e i temi ricorrenti della scrittura dell’autrice sono qui espressi alla massima potenza: il rapporto terribilmente conflittuale tra madre e figli, i vizi delle classi sociali più agiate e in particolare il loro velato disprezzo e razzismo verso la servitù, la fame di rivalsa di servitori e contadini nei confronti dei signori e dei latifondisti, che sembrano considerarli subumani, incapaci di comprendere le complessità di una vita di cui si sentono unici protagonisti ed intepreti.

Il libro è diviso nettamente in due parti, anche se grazie all’utilizzo di alcuni personaggi ponte l’effetto è quello di un grande affresco bruscamente interrotto dall’arresto dell’autrice. La prima, Tempesta, è un grande racconto corale con al centro la fuga irrazionale e brutale dei francesi dalle città dopo l’annuncio dell’avanzata dei tedeschi verso Parigi. Proprio da Parigi partono la maggior parte dei protagonisti di questa fuga inconvulsa e illogica, che portò grandi folle a compiere un vero e proprio esodo verso le campagne, mettendo fianco a fianco ricchi borghesi e poveri diavoli, bloccati su una strada intasata di persone ed effetti personali, spesso costretti a lottare per lo stesso pezzo di pane a causa della scarsità di cibo. Pur senza focalizzarsi su nessun personaggio in particolare, o forse proprio per questo, Tempesta è una scudisciata, una precisa diesamina dei differenti approcci che ricchi e poveri hanno al problema di arrivare alla meta (che non esiste, dato che i tedeschi si preparano ad occupare tutto il Paese) e di farlo con i propri averi, con lo stomaco pieno e in buona salute. Una madre di famiglia borghese con bimbi e suocero malato al seguito, la sua servitù, un giovane prete con un gruppo di orfanelli, due impiegati bancari sposati e il loro direttore, diviso tra la giovane amante ballerina e la moglie, un misantropo collezionista di oggetti d’arte, un soldato ferito in fuga dal fronte, alcuni contadini, una donna poverissima che ha appena partorito, uno scrittore raffinato e la sua compagna vanitosa; questi sono alcuni tra gli innumerevoli punti di vista attraverso cui la scrittrice evidenzia le meschinità più atroci e le bassezze più vili generate dal caos della fuga e dalla lotta per la sopravvivenza scatenata dallo sporadico passaggio degli aerei con mitragliatrici dei tedeschi. L’analisi della Némirovsky è così raffinata e così millimetrica che è impossibile non riconoscere, sgomenti, una radice, un seme di quella cattiveria che muove i suoi personaggi dentro il lettore, pronto a germogliare in ciascuno di noi non appena la situazione diventi terreno fertile di scontro come quello della Francia caduta in mano ai tedeschi. Il suo potere d’introspezione è tale che c’è persino un bellissimo paragrafo che ha come narratore il gatto cittadino di una delle figlie della ricca borghese; con il favore del buio conquista la libertà per la prima volta e assapora, estasiato, i profumi della notte e la sua capacità di uccidere le piccole creature che popolano la campagna, la sua giocosa indole assassina precedentemente soffocata dalla vita d’appartamento.


La seconda parte del romanzo, Dolce, è dedicata al tratteggio della lenta presa di potere dei tedeschi, che arrivano ad occupare ogni più piccolo villaggio, fino a quello dove vive la protagonista Lucille, apparsa di sfuggita nella prima parte del romanzo. Giovane da poco sposatasi con un ricco proprietario terriero locale, Lucille è costretta a vivere con la suocera, consumata dal pensiero del figlio prigioniero in Germania e costantemente astiosa nei riguardi della nuora e dei suoi contadini. Il silenzioso rapporto di tensione tra le due e il fragile equilibrio di pettegolezzi e mezze voci tra paesani ricchi e contadini poveri viene scosso dall’arrivo di un plotone di tedeschi che occupano di fatto il paese, imponendo la legge marziale e prendendo alloggio nelle case. Bruno, un’ufficiale tedesco, viene ospitato nella casa silenziosa dove si consuma la vita di Lucille e l’astio della suocera verso tutto il popolo teutonico, creando una definitiva spaccatura. Contravvenendo agli ordini della suocera, Lucille contrappone al muto silenzio richiestole un timido dialogo con il tedesco, rafforzato dalla loro comune passione per la musica. Ne nasce una grande relazione amorosa che vive tutta all’interno delle menti dei protagonisti, che impregna le pareti della villa e i rapporti sempre più tesi tra contadini e soldati, senza mai trovare un vero e proprio svolgimento. Lucille, coinvolta da un sentimento tortuoso e più sferzante di qualsiasi cosa provata negli anni precedenti, vive quasi di sfuggita i drammi della comunità francese, perennemente in bilico tra solidarietà umana con i soldati tedeschi e odio imperituro verso il nemico.

Il manoscritto originale
Solo leggendo le due appendici incluse da Adelphi si capisce quanto il finale comunque suggestivo di Dolce sia provvisorio: nelle lettere dell’autrice e negli appunti ritrovati sulle pagine a sinistra del suo manoscritto (un diario che conteneva nelle pagine a destra le bozze e in quelle a sinistra tutte le notazioni quotidiane e le riflessioni sullo sviluppo della storia della Némirovsky) si scopre come solo l’intervento dei nazisti abbia decretato che il grande amore di Lucille fosse Bruno, mentre nei piani dell’autrice quello doveva essere solo il suo risveglio emotivo prima di una grande avventura nella resistenza parigina, al fianco di un contadino ribelle e del figlio dei due impiegati disilluso. Anche le parti già concluse erano oggetto di profonde riflessioni e continui ripensamenti da parte dell’autrice, preoccupata di dare un resoconto il più possibile cristallino e comprensivo di quel momento storico che stava vivendo.

Si può solo definire toccante invece la raccolta finale di lettere che vedono protagonista il marito e i suoi amici all’indomani della sua scomparsa. S’intuisce la straordinarietà della persona da come tutti tentino l’impossibile per riportarla a casa, vedendo la partenza verso i campi polacchi così com’era allora, una scomparsa inspiegabile e angosciante verso l’ignoto. Le ultime lettere del marito (deportato pochi mesi dopo con la sorella) testimoniano l’affetto per la moglie, quando si spinge a ipotizzare di proporre ai tedeschi uno scambio di prigionieri per consentire alla moglie di tornare in libertà. Non ci si può che augurare di avere una rete di amici come quelli che, per allusioni e rimandi, si scambiarono notizie sulle due figlie ormai orfane in fuga per la Francia, facendo arrivare quando possibile un aiuto economico.

Per farsi un’idea di come scriva la Némirovsky basta leggere uno dei suoi romanzi brevi, tra cui spiccano Il Ballo e Come le mosche d’autunno. Nonostante il numero esiguo di pagine mantengono un’efficacia narrativa simile a una frustrata. I suoi romanzi, brevi o brevissimi, sono una lettura perfetta: incalzante, evocativa, spietata, sempre brillante. Se però volete superare la barriera di cinismo e fredda cattiveria ed entrare in contatto con la madre dolcissima e amica devota che fu la scrittrice, Suite Francese è una lettura più che consigliata, capace di narrare una grande storia d’amore senza un’oncia di stucchevolezza, un affetto che si concretizza per un battito di ciglia, mentre sullo sfondo si consuma la grande, tragica storia della Francia occupata.

IL FILM

Quando un romanzo come Suite francese arriva sullo schermo, non è solo il lettore a chiedersi se il film riuscirà a rappresentarlo al meglio, ma anche il regista e - in questo caso - cosceneggiatore a sentire  la responsabilità di rendere giustizia al capolavoro incompiuto di una grande scrittrice, nato durante l'occupazione della Francia nei tristi giorni di Vichy e affidato dall'autrice alle figlie bambine prima di scomparire per sempre ad Auschwitz.
Un'opera conservata per 60 anni e mai letta, scritta in una calligrafia minuta, ritenuta a torto un diario e poi scoperta come romanzo, pubblicata nel 2004 e diventata caso letterario e libro amatissimo in tutto il mondo.

Concepito dall'autrice Irène Némirovsky come un grande affresco sulla tragedia della guerra e i suoi effetti sulla popolazione civile, Suite francese resta l'unico romanzo contemporaneo al conflitto, visto attraverso uno sguardo femminile.

Proprio le donne sono protagoniste di Dolce, la seconda parte del romanzo, che Saul Dibb intelligentemente integra con la prima, cronaca dell'esodo dei cittadini parigini verso la campagna: donne sole con mariti, figli o fidanzati in guerra o prigionieri, donne giovani e senza uomini, disposte a fraternizzare col nemico pur di sentirsi ancora belle e amate e donne vecchie piene di odio verso chi ha portato via i loro cari.

Ci sono anche gli uomini che per motivi di salute o privilegi non sono andati in guerra, ma è femminile e spietato lo sguardo che racconta la strana pace che si crea nel 1940, quando il maresciallo Pétain firma l'armistizio e dà vita alla Repubblica di Vichy. Invitati a collaborare con le forze di occupazione naziste, inizialmente restii, i francesi si adattano ben presto al nuovo regime in una situazione di precario equilibrio che - come spesso accade nella vita - tira fuori il peggio di loro.

Il romanzo della Némirovsky e il film - che ne trasferisce alla perfezione lo spirito sullo schermo pur con le necessarie infedeltà e aggiustamenti alle ragioni del cinema, come la drammatizzazione della storia e del finale  – raccontano molto bene una società classista fondata sul profitto e i conflitti che scaturiscono in un interregno anomalo come quello dell'occupazione: le delazioni, i furti, le gelosie, i diritti considerati inalienabili, la superficialità e la disperazione si intrecciano in un ritratto della razza umana che definiremmo pessimista se non fosse, purtroppo, fin troppo realistico.

Sull'orlo di quel baratro di cui sembra intuire la portata e che finirà per inghiottirla, la scrittrice ha la geniale intuizione di contrapporre alla bassezza umana una storia d'amore impossibile, delicata, toccante e piena di sfumature, che si interrompe tragicamente prima di cominciare e che nasce sulla base del comune interesse per la cultura e per la musica (nel film la composizione di Bruno, l'ufficiale tedesco, è di Alexandre Desplat), nell'ingannevole zona franca in cui il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende.

Saul Dibb, che ci aveva già regalato con La duchessa un affascinante e anticonformista ritratto femminile, con le sue origini di documentarista è perfettamente a suo agio nel mettere in scena in modo plausibile un mondo lontano e straniero e a renderne il sapore e l'atmosfera, pur girando in inglese con attori britannici, tedeschi, americani e belgi. Narra con la giusta progressione il passaggio dalla pace apparente all'inevitabile disastro, dalla gentilezza iniziale degli occupanti alla crudeltà gratuita quando la tregua viene rotta.


Parte del merito della riuscita del film è anche degli attori: Michelle Williams si conferma come una delle attrici americane di maggior spessore e sensibilità ed è bravissima a dar vita - prima nel rapporto con la suocera di ferro incarnata con grande forza da Kristin Scott Thomas, poi col disarmante, intenso Bruno di Matthias Schoenaerts - a un personaggio di donna giovane, piena di aspirazioni e contraddizioni, intrappolata in un periodo e in una cultura che non lasciano spazio alla libera scelta e in cui anche l'amore è uno schiavo destinato al sacrificio.

Suite francese è un film bello e importante che ha anche il merito di invitare a  riscoprire l'opera di Irène Némirovsky, e che - di questo siamo stati testimoni - lascerà con le lacrime agli occhi anche il più cinico degli spettatori.


Fonti:
gerundiopresente.wordpress.com
www.comingsoon.it

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