"Il libro segreto di Shakespeare" di John Underwood

A Berkley, in California, in molti attendono Desmond Lewis, un professore universitario inglese, per una conferenza. Ma il tanto discusso professore non arriverà mai a tenerla, e insieme a lui sparirà anche un suo manoscritto inedito di cui, in gran segreto e con molta riservatezza, ha accennato al telefono a Jake Fleming, suo “amico” (e spiegherò dopo il perché delle virgolette) e giornalista del San Francisco Tribune. Il manoscritto conterrebbe la verità sull'identità dell'autore più importante nella storia della letteratura mondiale, William Shakespeare, cui si nega la paternità di opere come "Romeo e Giulietta", "Amleto" e degli altri suoi capolavori: una teoria certo sconvolgente ma che in tanti, fra cui Mark Twain, avevano già sostenuto in passato. Jake Fleming si mette subito sulle tracce del professore scomparso per scoprire che fine abbia fatto e quale enigma si cela dentro le pagine che ha scritto. Il viaggio lo porterà in Inghilterra, lo farà incontrare con personaggi ambigui ed eccentrici, docenti e accademici altezzosi e pieni di spocchia; si scontrerà con la logica del sistema inglese che tende a difendere quanto di più caro abbia l’Inghliterra. In Europa, Fleming viene raggiunto da sua figlia Melissa, grande appassionata (e studiosa) di teatro, aspirante attrice, nonchè ferma sostenitrice dell’inviolabilità di Shakespeare e della paternità delle sue opere.

Fin qui la trama e non vado avanti per non svelare altro, dal momento che, nelle intenzioni di autore ed editore, si tratterebbe di un thriller… Ma è davvero così? In realtà nel libro non ci ho trovato assolutamente nulla di questo genere se per thriller si intende “Opera letteraria, teatrale o film di genere poliziesco che mira a provocare tensione e paura” (cit. da dizionario).

È un libro irritante e noioso dove paura e tensione non sfiorano neanche il lettore più superficiale! Nonostante un inizio promettente, con quell’ambientazione storica, quel volerci far assistere nella Camera Stellata ad un processo (già condanna) ad un Poeta, ci si imbatte subito in una sequela di nomi che difficilmente si riesce a seguire, e di cui, francamente, se ne poteva anche fare a meno; ma “l’elenco nominativo”, evidentemente, deve essere uno dei tratti caratteristici dello scrittore, dal momento che non ci risparmia di ciò neanche per tutto il resto delle pagine.
Tutta la storia potrebbe svolgersi nella metà delle 443 pagine circa che compongono il libro, infarcite, tra l’altro, di brani descrittivi noiosissimi, frasi fatte, banali e ripetitive (come, ad esempio, il ripetere in maniera quasi ossessiva che Melissa, la figlia di Fleming, era così bella da far girare la testa ai passanti).

Ma ciò che più mi ha infastidito durante la lettura sono state le disattenzioni dell’autore nel tessere la trama: qualche esempio. Per tutto il libro si dice che Fleming e lo scomparso Lewis erano amici, cosa che, evidentemente, l’autore ha deciso, come dire, in corso d’opera dal momento che i due si erano incontrati a un convegno un paio d’anni prima del contatto telefonico da cui tutta la vicenda ha inizio; da allora, non si erano più sentiti né frequentati, al punto che quando Lewis telefona a Fleming gli deve ricordare il suo titolo accademico:

A pag. 18, infatti, leggiamo:
“…sono il professor Desmond Lewis dell’Università di Londra”
Non credo che se telefonassi a un amico dovrei ricordargli chi sono.
E, più avanti, pag. 19
“Quell’inglese era un po’ eccentrico, da quanto ricordava”…
L’autore, però, cerca di salvarsi in calcio d’angolo dove sembra mettere una pezza a tutto ciò, ma siamo oramai a pag. 244.
Sempre per la serie occhio alla consecutio degli eventi: Fleming riceve la telefonata da Lewis al mattino, difatti a pag. 18 leggiamo:
“Quel mattino era appena entrato […] dal solito jogging […] e aveva sollevato il ricevitore al sesto squillo”.
In seguito, la figlia chiama il padre che è ormai sabato sera:
Pag. 20:
“Papà […] pensavo fossi sveglio è sabato sera”, e durante la conversazione Fleming le dirà che Lewis lo ha chiamato “qualche ora fa”. Ma non è, ormai passata quasi l’intera giornata? Trattasi di cattiva traduzione o cosa?
Ciò che più mi ha irritato nella lettura sono le scene che sfiorano il ridicolo: come quella dell’invasione della libreria di Blodgett ad opera di un molto improbabile gruppo di skinhead, la qual cosa sembra un po’ calata dall’alto, come un’azione messa lì per fare movimento, per creare suspence, un colpo di scena mal riuscito, senza però che si riesca nell’intento!
O, peggio ancora, l’episodio ridicolo della “freccia piumata”:
Pag. 366:
“Proprio mentre si alzava, ci fu un fragore di vetri rotti, seguito da uno strano suono sibilante. Melissa lanciò un grido quando vide il colpo: una freccia piumata, che tremolava nel fianco del fagiano. Poulson la guardò sconcertato, si voltò verso la finestra e, un attimo dopo, un secondo dardo attraversò il foro nel vetro andandosi a conficcare nel suo petto.”
…un’americanata in pieno stile!
Un thriller dovrebbe far paura, generare suspence, non certo far ridere.

Insomma, un libro da cui mi aspettavo molto, in quanto amante del genere, e che invece mi ha fatto rimpiangere il tempo trascorso a leggerlo!
L’unica cosa su cui posso “tessere elogi” è la copertina: davvero bella.
Per il resto… non lo consiglio affatto.

Eliana Corrado

Il libro segreto di Shakespeare, John Underwood
Newton Compton
pp. 432 - euro 9,90

© Riproduzione riservata

3 commenti:

  1. Leggere una recensione negativa fa sempre un certo effetto! E ci vuole anche un certo coraggio a farla. Perciò i miei complimenti per aver parlato senza peli sulla lingua :-)

    RispondiElimina
  2. Un libro decisamente intrigante e interessante.

    RispondiElimina
  3. Ma perchè gli editori italiani continuano a innamorarsi di robaccia come questa? Grazie, Eliana, per la sua recensione.

    RispondiElimina

Powered by Blogger.