La “Trilogia della speranza” di Massimo Cortese


La speranza è l’ultima a morire. Bella banalità! – direte voi, e a ragione, eppure è una di quelle cose tremendamente ovvie sulle quali a volte ci tocca poggiare la nostra esistenza quotidiana, volenti o nolenti. E che la speranza sia sovente sotto il tiro incrociato di innumerevoli “cecchini” e dunque in qualche modo bisognosa di costante soccorso – ovvero di nutrirla, per sé stessi in primis e subito dopo per il mondo che ci ritroviamo intorno – l’ha capito bene Massimo Cortese, avvocato marchigiano con la passione per la scrittura, che alla speranza ha dedicato addirittura una trilogia, detta “della speranza”, appunto, composta tra tre piccoli (tra le 50 e le 70 pagine circa) e veloci volumi: “Candidato al Consiglio d’Istituto”, “Non dobbiamo perderci d'animo” e “Un’opera dalle molte pretese” – tutti editi da Montag.

Il termine “trilogia” è qui da intendersi in senso non esattamente identico a come viene inteso nel fantasy, ad esempio. In effetti il filo rosso di unione tra i tre libri non è tanto narrativo o prettamente tematico, quanto più “scenograficamente sociologico”, se così si può dire, per come la speranza diviene un’unica tela sulla quale dipingere tre storie – o due più una raccolta di racconti, per la precisione, quale è “Non dobbiamo perderci d'animo” – che in tre modi differenti vogliono appunto narrare di speranza, di volontà di reagire a quanto non funziona come dovrebbe al mondo e di buone prospettive affinché quelle stesse cose tornino a funzionare a dovere, o almeno meglio di prima. Per questo diviene quasi inevitabile disquisire dei tre libri in un’unica recensione, nonostante la loro indipendenza: nel complesso ne esce un percorso di lettura e di riflessione univoco, che per l’autore – protagonista in prima persona o come parte in causa delle storie narrate – è quasi iniziatico e propedeutico, come detto, alla salvaguardia personale della speranza.

Ciò è evidente fin dal primo volume, “Candidato al Consiglio d’Istituto”, la cui vicenda narra di una reale eppure bizzarra e, alla fine, quasi paradossale campagna elettorale per l’elezione alla carica di rappresentante dei genitori nell’istituto scolastico frequentato dalla figlia. Un incarico apparentemente “banale” che tuttavia scatena una bagarre elettorale degna d’una poltrona politico-istituzionale, sulla cui narrazione Cortese innesta svariate riflessioni sul senso generale della cosa, sul perché scriverne, nonché sul valore universale dell’educazione scolastica e dei problemi che possono sorgere da una scarsa cura di essa, ad esempio il bullismo. Il tutto esposto in stile più o meno diaristico, forma che accentua e rende certamente evidente il profondo coinvolgimento personale dell’autore nella vicenda. Un volume molto intenso, forse troppo, che presenta una certa confusione di fondo nell’esposizione, tuttavia mitigata da un gradevole senso ironico che permea l’intera dissertazione, e che non nasconde di certo il valore quasi saggistico di alcune parti, che potrebbe ben interessare anche chi, per diversa vita quotidiana, non si sente direttamente coinvolto nei fatti narrati.

Quasi consapevole di dover dare alla propria attività di scrittura un maggior ordine, ma certo anche per naturale evoluzione stilistica e legittima scelta letteraria, il secondo volume della trilogia, “Non dobbiamo perderci d'animo”, si presenta come un rimarcabile passo in avanti rispetto al precedente, e si avvicina in modo più deciso a quel concetto di “speranza” che, come detto prima, è la base della trilogia stessa. D’altro canto il titolo del volume è assolutamente indicativo: gli undici racconti che lo compongono appaiono come tanti piccoli affreschi di un riscatto possibile, i cui protagonisti sbagliano, falliscono, si ritrovano in grosse difficoltà loro malgrado, si disperano, eppure non perdono mai la speranza – guarda caso – di risollevarsi e ripartire. Al tema della speranza, in “Non dobbiamo perderci d'animo”, si affianca anche quello della memoria, soprattutto identificato nella figura della madre, protagonista di parte del volume, donna forte e coraggiosa che riesce a trovare in rare piccole gioie tra mille grandi difficoltà la forza per andare avanti, e la cui figura sembra a sua volta identificare quella dell’intera società italiana di quel tempo – siamo intorno agli anni ’50, ovvero appena dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale – minata nelle possibilità e nella forza ma non nell’animo. Inoltre non mancano le riflessioni di più ampio respiro tipiche della scrittura di Cortese, ma qui, a differenza del primo volume, sono i protagonisti dei racconti a dar loro voce, il che, come detto, rende più gradevole e suggestiva la lettura e, forse, dona anche un quid in più di coinvolgimento, dato appunto dall’elemento “memoria” che, in un modo o nell’altro, e per come è strettamente legato anche all’elemento “tempo”, è comune a tutti.

Nel terzo volume della trilogia Cortese torna diretto protagonista, e insieme al suo “protagonismo” torna anche l’indole ironica della narrazione, che nel secondo libro aveva giustamente lasciato spazio ad un’atmosfera più malinconica e nostalgica. “Un’opera dalle molte pretese” ha forse come prima “pretesa” – assolutamente positiva, sia chiaro – quella di rapportare una volta per tutte la speranza ai giorni nostri, alla quotidianità e a certe sue parti con le quali inevitabilmente tocca far conto nella nostra vita di ogni giorno, a partire da una di quelle più importanti e (o) ingombranti: lo Stato e le sue propaggini istituzional-burocratiche.
Il pretesto narrativo è, come detto, personale, e non per questo poco bizzarro: un rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, con conseguente immersione nelle tipiche e risapute fangosità statali italiche... Ma è un mero pretesto appunto, ancorché fondamentale, per tratteggiare una vivace disquisizione sul funzionamento della nostra società contemporanea e su certe incancrenite ingiustizie che la minano, conseguentemente minando la nostra quotidianità, come già rimarcato. Una volta ancora, e anche più che le battaglie legali, burocratiche o caratteriali contro quelle che appaiono sotto ogni punto di vista come concrete prese per i fondelli, è la speranza a mettere in salvo l’autore dal farsi totalmente ingurgitare dalla tenebra dell’ingiustizia: la speranza che si possano migliorare le cose, e che lo si possa fare dal basso, ovvero da ogni singolo individuo e dalla risoluzione di alcune questioni (come quella sulla salvaguardia del valore dell’educazione, una di quelle che palesemente stanno più a cuore, all’autore) che fanno parte di ogni singola vita quotidiana e che nella loro piccola/grande importanza sociale potrebbero portare notevole giovamento all’intera comunità.
Il tutto con uno stile che, ribadisco, torna a essere particolarmente vivace e godibile, a tratti quasi spassoso, e certamente degno “risolutore” del cammino intrapreso dai tre volumi.

Nel complesso questa “trilogia della speranza”, pur tra alcune ombre di forma e di sostanza, è un progetto sicuramente simpatico e interessante, capace di trattare argomenti importanti con una profondità quasi scanzonata e, proprio per questo, in grado di far riflettere più che certa professorale (e tediosa) seriosità. E’ indubbiamente da leggere nella sua totalità, anche se ogni volume possiede una sua vita propria, ma di sicuro la brevità dei tre libri può agevolare tale scopo – oltre a quello, banale quanto volete ma sempre prezioso, di continuare a far sì che il funerale della speranza non venga mai celebrato...

2 commenti:

  1. Ho letto la trilogia di Massimo Cortese,alcuni mesi fà.E riconosco all'autore(autrice?) della recensione
    l'abilità di avermi invogliato a rileggerla.

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