Intervista: Isabel Allende

E' la data in cui ogni anno Isabel Allende inizia a scrivere un nuovo romanzo. Nell’ultimo, Il quaderno di Maya, la protagonista è una donna che non ha paura di ricominciare.
Proprio come lei.
di Raffaele Oriani

Puntuale, come fa da trent’anni, il prossimo 8 gennaio Isabel Allende comincerà il suo nuovo romanzo. Non sa ancora di che cosa parlerà, ma se lo sente già crescere dentro. L’ultima volta che ha acceso il computer e si è immersa tra i suoi fantasmi per dieci ore al giorno è stato nel 2010 per Il quaderno di Maya, che esce ora da Feltrinelli in traduzione italiana (pagg. 384, 20 euro): «Sì, anche Maya è nata l’8 gennaio, come La casa degli spiriti, come Paula, come tutti i miei libri. Non è superstizione ma disciplina: arriva il momento in cui smetti di viaggiare, parlare, accumulare, e inizi a scrivere». Il distillato della disciplina 2010 è la storia di una giovane californiana che per ragioni misteriose trova rifugio nell’angolo più sperduto del Cile: per quasi quattrocento pagine si viene sballottati tra Stati Uniti e Sud America, vecchi saggi e giovani impazienti, lampi di cattiveria e illuminazioni d’amore. Pura Isabel Allende. Con qualche tratto più crudo del solito, un saldo filo di suspense, e la consueta capacità di affidare le avventure dei vivi alla benedizione dei morti. Allende è cilena, ha il culto dei ricordi, ma vive da vent’anni in California e qui si confronta con una ragazza in fuga da San Francisco.

Quanto sono distanti questi due mondi?
Negli Usa domina la famiglia nucleare, e quando ti sposti ricominci da capo e da solo. Nel mio Cile la famiglia allargata era il centro di ogni cosa: ho vissuto per anni da rifugiata politica, ma ovunque andassi avevo bisogno di ricreare quei legami.

Nel Quaderno di Maya la famiglia sono soprattutto i nonni. Sembra che riparino i guasti di una generazione.
Anche se i genitori sono assenti, l’importante è avere in memoria l’amore di qualcuno. Per Maya il ricordo dei nonni è la via d’uscita da alcol e droga.

Oggi i giovani più che alla famiglia guardano ai social network. Perdono qualcosa?
La generazione Facebook ha forse meno profondità, ma guadagna tantissimo in capacità di connessione. Il dialogo planetario rende i ragazzi molto forti e molto creativi: l’ho visto tra i giovani indignati del Cile, di Wall Street, di San Francisco.

Nel romanzo, Maya viene molestata di continuo. È ancora tanto difficile essere donna?
Certo, come è difficile essere giovani: negli Usa si calcola che un’adolescente che scappa di casa venga molestata sessualmente entro le prime 48 ore.

Eppure nel libro si dice anche che “tutto il mondo è magico”. Qual è la magia?
Siamo avvolti nel mistero. Io me ne accorgo più di altri perché faccio un mestiere solitario, siedo per ore davanti al computer e posso indagare le coincidenze inspiegabili, i fili che legano fatti disparati.

Le capitano spesso coincidenze inspiegabili?
Il mio secondo romanzo, D’amore e d’ombra, tratta di un ritrovamento di desaparecidos durante la dittatura di Augusto Pinochet. Conoscevo il fatto, ma al tempo ero in Venezuela, in esilio, e da lì mi immaginai che fosse stato un prete in confessione a sapere di quella fossa comune. Poi lo misi in sella a una moto, gli feci fare delle foto ai cadaveri, lo feci correre dal cardinale a denunciare il tutto. Molti anni dopo, si presenta un signore a casa dei miei genitori, dice di essere un gesuita e mi fa: “Come l’ha saputo?”. Era tutto vero: scrivendo mi ero immaginata la realtà tale e quale.

I suoi romanzi sono pieni di amore e di dolore. Si impara più dall’uno o dall’altro?
Tutto quello che so l’ho appreso soffrendo. Mi godo la felicità, ma non ne cavo nulla. Il dolore invece ti cambia in profondità: avevo cinquant’anni quando mia figlia Paula è entrata in coma. Da allora sono un’altra persona: non ho più paura della morte e apprezzo la vita semplicemente perché vivo.

Lei non ha avuto un’esistenza semplice ma sorride sempre. Come fa?
Prima di tutto sono sana, e quando il corpo risponde tutto è più facile. E poi è vero che ora sono serena, ma una volta non ero così: la scomparsa di mia figlia mi ha cambiata una volta per tutte.

È sposata con il suo secondo marito William Gordon dal 1988, ma entrambi ne parlate come se vi foste innamorati pochi mesi fa. Qual è il segreto?
Non avere nulla in comune (ride). No, in realtà ci rispettiamo molto e abbiamo alle spalle moltissima terapia.

Terapia?
All’inizio è stata durissima: mi sono trasferita in California per Willie, ma conoscevo poco l’inglese e venivo da una cultura imperniata su onore e dedizione al lavoro. In casa sua, invece, trovai tre figli malati di tossicodipendenza e un viavai di gente inaffidabile per cui non ti azzardavi a lasciare la borsetta sul divano. Eppure è rimasta... Abbiamo resistito. Nel ’92 è morta mmia figlia, un anno dopo la figlia di Willie è stata stroncata dalla droga. Quando guardiamo indietro, ci sentiamo dei sopravvissuti, e la vita di oggi sembra un gioco.

Com’è invecchiare?
Non mi piace per nulla.

Ma i suoi libri sono pieni di vecchi affascinanti.
Sono felice, innamorata, in salute. Il problema è che attorno a me non tutti invecchiano allo stesso modo: gli amici cominciano a essere pieni di acciacchi. E poi i miei genitori sono ormai fragilissimi.

Scrive sempre ogni mattina a sua madre?
Sempre. E lei ogni giorno mi risponde. Ha 91 anni, ma non è mai stata così arguta, usa internet e lo scorso inverno abbiamo provato a passare dalle lettere a skype. Ma ci mancava troppo la scrittura: a casa ho un armadio pieno delle lettere che ci siamo scambiate in quarant’anni. Abbiamo passato la vita lontane, ma vivendo nello stesso quartiere non avremmo potuto essere più vicine.

Lei è tradotta in trenta lingue, ha venduto oltre cinquanta milioni di copie. Come si spiega tanto successo?
Non lo so. Posso solo dirle che ricevo tantissime lettere e nessuna parla di letteratura: sono tutte molto personali, chi racconta di un figlio malato, chi di un divorzio imminente, chi del suo sogno di diventare scrittore. Credo di avere una visione del mondo che comunica speranza.

È sempre convinta che la speranza sia femminile?

Di più: la penso come il Dalai Lama quando dice che il mondo sarà salvato dalle donne occidentali. Quelle liberate. Non dobbiamo dimenticare che l’80 per cento delle donne vive ancora come cinquant’anni fa: non gode di alcuna emancipazione, ammesso che ne abbia mai sentito parlare.

Tratto da Io Donna, Novembre 2011

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